5 domande a Valentina Zucchi, Responsabile mediazione culturale
Oggi proviamo a raccontarvi l’associazione attraverso le parole della nostra Responsabile Mediazione Culturale. Una breve intervista per capire la sua visione della mediazione nei musei e per comprendere lo spirito che anima MUS.E e il nostro modo di presentare la cultura e l’arte.
Ancora non tutte le persone sanno cosa sia la mediazione culturale nei musei. Vuoi spiegare dal tuo punto di vista la differenza fra una visita guidata tradizionale e un’attività di mediazione?
Diciamo che la visita guidata tradizionale rientra nelle attività di mediazione o meglio ne è una parte, non obbligatoria, ma sicuramente importante. In che senso, mediazione, lo dice la parole, è ciò che sta a metà, a metà fra i musei, il patrimonio e il pubblico o i pubblici. Quindi il nostro difficile, ma anche appassionante lavoro, è di essere l’ago della bilancia di due piatti parimenti importanti e che devono trovare un punto di dialogo. Noi cerchiamo di favorire questo dialogo, che sia attraverso una visita guidata, una conferenza o un’attività di laboratorio o un progetto partecipato, la forma cambia, ma la sostanza è questa: cercare di creare un’esperienza di valore tanto per il museo quanto per il visitatore.
Quali sono per te i migliori esempi di mediazione nei musei?
La tradizione della mediazione e dell’educazione nei musei è forestiera e abbiamo esempi ormai pluridecennali oltreoceano e nel mondo anglosassone e francese. L’Italia ha comunque sviluppato ormai da diverso tempo una soglia di esperienza sufficientemente vasta nei musei. Tra gli esempi a cui noi guardiamo c’è sicuramente la Tate a Londra, per tutto il ripensamento che l’ha coinvolta negli ultimi anni dalle radici del perché si fa questo lavoro fino al come si fa, partendo dall’assunto che il museo è un museo se partecipato, in cui il pubblico ha lo stesso peso della collezione. Poi abbiamo lodati esempi a New York con il MOMA, a Parigi con il Pompidou, e il Rijksmuseum di Amsterdam. Abbiamo realtà che riflettono quindi, in maniera anche semplice, a volte disarmante, su quali siano le forme di dialogo fra musei e pubblici. La riflessione di oggi non è tanto quali attività si fanno, ma il perché si fanno. I musei che ho citato sono quelli che stanno riflettendo di più su questo tipo di premesse. L’Italia dal canto suo non sta ferma a guardare e riflette e opera naturalmente con tutti i limiti che la situazione italiana del mondo della cultura attualmente ha. In questo senso esempi ormai storici sono quello del Castello di Rivoli a Torino che in maniera molto attiva e innovativa, qualche anno fa, ma ancora sempre all’avanguardia, anche ora, lavora sul contemporaneo, sul coinvolgimento della città, quindi su forme di fruizione dell’arte non tradizionali e non canoniche. Se pensiamo ad un altro esempio legato al ‘900, al mondo del contemporaneo, c’ è il MAMBO di Bologna, dove ancora si lavora in maniera sufficientemente innovativa e dinamica. O ancora il MANN di Napoli, il Museo Archeologico Nazionale che ha visto appunto negli ultimi due anni, soprattutto con la nuova direzione, una serie di esperimenti decisamente innovativi in questo ambito. E qui si capisce anche quanto sia difficile tracciare un confine tra dipartimento mediazione o servizi educativi e le relazioni con il pubblico in generale.
Veniamo a MUS.E: che tipo di preparazione deve avere un mediatore culturale Mus.e, quali sono le materie da studiare, da conoscere, se la pedagogia, la storia dell’arte?
Noi siamo reduci da un convegno internazionale che si è focalizzato proprio su questo, perché questo è quello che sentiamo come maggiore urgenza e credo che sia poi il punto da cui si parte, perché come si sa sono le persone che fanno la differenza. E un servizio di qualità è fatto da persone di qualità. Persone di qualità che prima di tutto devono stare bene nel loro contesto lavorativo per lavorare bene e al meglio. Il tema della formazione è un tema molto caldo. Perché tutti i nostri mediatori hanno una formazione scientifica, ovvero storica o storico-artistica, hanno una solida competenza e conoscenza curriculare accademica sul fronte contenuti, hanno un’altrettanto ormai solida competenza battuta sul campo rispetto invece al pubblico. Quindi c’è una formazione curriculare sul piano museo, non c’è una formazione curriculare sul che cos’è la pedagogia o come ci si rapporta col pubblico. Tutto questo viene appreso sul campo e la nostra fortuna è avere uno staff sufficientemente stabile e coeso, che può giorno dopo giorno fare tesoro dell’esperienza. Il convegno che abbiamo trattato affronta proprio questi aspetti, cioè perché si studia solo la storia dell’arte, o perché si studia solo l’educazione dei bambini o degli adulti, perché non esiste un percorso che metta insieme queste due competenze, che poi sono quelle che servono effettivamente per fare un buon lavoro nei musei. Ci auguriamo che presto questa lacuna venga colmata, nel mondo esiste lo stesso tipo di iato, e quindi questa è la sfida sostanzialmente per il 2018 e gli anni a venire.
Il pubblico, o meglio i pubblici, dei musei: un rapporto spesso difficile, soprattutto in Italia. Come si progetta un’attività per incuriosire pubblici diversi, dai bambini ai millenials, agli adulti? E’ possibile far coincidere divertimento e educazione?
L’etimologia porta a far divergere il divertimento dall’educazione, perchè il divertimento devia e l’educazione porta, quindi è difficile farla convergere dal punto di vista teorico, poi che il piacere porti all’apprendimento questo sì, assolutamente. Sono due concetti lievemente diversi. Nel senso che noi partiamo dall’obiettivo che le persone stiano bene in quel progetto, perchè se stanno bene, se lo vivono come una buona esperienza, poi si divertiranno o comunque sarà per loro un’esperienza piacevole e quindi ne trarranno anche educazione e diletto. Ne trarranno anche apprendimento e quindi faranno quel passo in più in termini della formazione continua, del life for learning, di cui ora si parla e che coinvolge tutti noi nell’apprendimento informale che ogni giorno ci attraversa, volenti o nolenti. Quindi, come si progettano: prima di tutto guardando chi abbiamo di fronte, che siano bambini, millenials, adulti, anziani, persone disagiate e rispettandole profondamente nelle loro caratteristiche, cercando di capire che cosa vogliono e che cosa cercano. Il museo a nostro avviso è un essenziale servizio pubblico, quindi risponde a una domanda importante della società, cioè perché siamo al mondo e che cosa esiste oltre la sussistenza. La cultura ha la grande ambizione di voler dare una risposta e un senso a questo nostro essere qui. E quindi ognuno di noi nell’essere diverso, dal bambino di 2 anni all’anziano di 90, o all’immigrato appena atterrato a Firenze, cerca o può cercare, o può trovare in un museo un tipo di risposta.
I “pubblici deboli” sono un argomento di cui si parla spesso. Quali azioni Mus.e ha pensato appositamente per loro?
Allora quando si parla di pubblici deboli si arriva subito a pensare all’accessibilità. Recentemente abbiamo assistito a una serie di sessioni di formazione sull’accessibilità dei beni culturali e ci siamo resi conto che è fondamentale sviluppare una cultura dell’accessibilità. Cerchiamo cioè di promuovere l’inclusione e la partecipazione di tutti e l’attenzione alla diversità, che poi è insita in tutto il mondo e in tutto il nostro essere nel mondo. Da qui ne derivano proposte specifiche pensate con e per pubblici deboli, disagiati, con disabilità fisica, disagio mentale o disagio sociale, ma anche esperienze che vedono insieme le varie tipologie di pubblico proprio in un confronto inaspettato e inedito. E’ l’esempio di domenica scorsa dove il fare una visita vedenti e non vedenti insieme, tutti privati della vista, può offrire l’occasione a chi non vede di fruire il museo e a chi vede per una volta di fruirlo in maniera diversa. O le visite condotte da i nuovi cittadini che offrono anche ai residenti un nuovo sguardo su un patrimonio conosciuto.
Spesso l’arte contemporanea è considerata più difficile di quella antica o moderna. E’ così anche per la mediazione culturale collegata?
A Firenze sì. Nel senso che Firenze e i fiorentini hanno un legame strettissimo, viscerale con il proprio patrimonio, lo sentono parte di loro stessi. Questo è un riscontro quotidiano, nel senso che capiamo che c’è un’abitudine alla frequentazione dell’arte che si ferma grosso modo al 1960 e quello che è oltre viene guardato e vissuto con diffidenza, l’abbiamo visto anche con la mostra Ytalia. Ciò che è tradizione rassicura e quindi richiama, ciò che è nuovo suscita diffidenza e ci si sta a debita distanza. Da qui una riflessione altrettanto importante, cioè chi prende parte alle nostre attività: una fetta importante è quella di una popolazione adulta e matura. Questo perché la popolazione di Firenze vede triplicata la percentuale over 65 rispetto agli anni ‘50, per esempio, le persone che stanno in pensione hanno più tempo libero di chi lavora, hanno più sete di conoscenza, hanno più spazio mentale per le esperienze culturali e quindi noi ci ritroviamo una fetta di partecipanti che ha una consuetudine con un’idea di arte più tradizionale. Da qui lo sforzo nel cercare coinvolgere chi non è negli “anta” e che forse ha uno sguardo meno strutturato rispetto al mondo dell’arte.
Qual è la tua giornata tipo Mus.e?
Non c’è una giornata uguale all’altra, nel senso che tutto è fatto di programmazione e di emergenze che si vanno a mescolare, di un lavoro di gruppo che crea dinamiche continue. Sicuramente un grande piacere nonché un grande onore è quello di poter lavorare con il bello e con un bello così importante e che ha ancora così tanto da dire. Insomma… un grande caos organizzato!