Michelangelo e il potere
TRASCRIZIONI
Buonarroto, io intesi per l’ultima tua chome la terra stava in gran pericolo, onde n’ò avuta gran passione. Ora s’è decto di nuovo che la casa de’ Medici è ‘ntrata in Firenze e che ogni cosa è achoncia; per la qual cosa chredo che sia cessato il pericolo, cioè degli Spagnuoli, e non credo che e’ bisogni più partirsi. Però statevi in pace, e non vi fate amici né familiari di nessuno, se non di Dio, e non parlate di nessuno né ben né male, perché non si sa el fine delle cose. Actendete solo a’ chasi vostri. E’ quaranta ducati che Lodovicho à levati da sSanta Maria Nuova, io vi scrissi l’altro dì una lectera che in chasi di pericholi della vita voi ne spendessi non che quaranta, ma ctucti; ma da questo in fuora, io non v’ò dato licenzia che voi gli tochiate. Io v’aviso che io non ò un grosso, e sono si può dire schalzo e gnudo, e non posso avere el mio resto, se io non ò finita l’opera; e patisco grandissimi disagi e fatiche. Però, quando voi anchora soportassi qualche disagio, non vi increscha, e i’ mentre che voi vi potete aiutare de’ vostri danari, non mi togliete e’ mia, salvo che in casi di pericholi, come è detto. E pure quando avessi qualche grandissimo bisognio, vi prego che prima me lo scriviate, se vi piace. Io sarò costà presto. Non mancherà a modo nessuno che io non facci l’Ogni Santi costà, se a Dio piacerà.Michelagniolo scultore in Roma. A dì 18 di sectembre.A Buonarroto di Lodovicho Simoni in Firenze.
Collocazione: AB, IV, n. 25; orig. autogr.
Bibliografia: Michelangelo, Carteggio, I, 1965, p. 136.
Magnifico nostro carissimo, poiché la qualità de’ tempi et la relatione delli amici vostri ci danno qualche speranza che voi non siate del tutto alieno dal volere dare una volta sino a Firenze per rivedere un poco, dopo tanti anni, la patria et le cose vostre, quel che a noi sarebbe di tanto piacere, quanto l’habbiamo sempre molto desiderato, ci è parso con questa nostra dovervene eshortare et pregare, come ve ne eshortiamo et preghiamo con tutto il cuore, persuadendovi di havere a esser visto gratissimamente da noi. Né vi ritenga dubio che noi siamo per gravarvi di alcuna sorte di fatica o fastidio, ché bene sappiamo il respetto che hormai si deve così alla età, come alla singularità della virtù vostra ma venite pure liberamente et promettetevi di havere a passare quel tempo che vi tornerà bene di dimorarci a tutto vostro arbitrio et sodisfattione, perché a noi basterà assai vedervi di qua, et nel resto tanto piacere haremo, quanto ne sentirete voi maggiore recreatione et quiete, né penseremo mai se non a farvi honore et commodo. Nostro Signore Dio vi conservi.Di Fiorenza, li VIII di maggio MDLVII.Vostro el duca di Fiorenza.Al magnifico messer Michelagnolo Buonaruoti nostro carissimo et cet.A Roma.
Collocazione: AB, VII, n. 220; orig. autogr. solo la sottoscrizione.
Bibliografia: Michelangelo, Carteggio, V, 1983, p. 97.
Lionardo, io ò ricevuto sedici marzolini, e quactro iuli pagato al mulactiere. Tu debbi aver ricevuta la lectera che ti scrissi del comperare una casa onorevole, e ora, mentre che scrivo, m’è stata portata una tua della ricevuta di decta, dove mi di’ che anderai a vicitare Michele e la Francesca e farai l’ambasciata; e rachomandami a lloro. Circa il comperare la casa, io vi raffermo il medesimo, cioè che cerchiate di comperare una casa che sia onorevole, di mille cinque cento o dumila scudi, e che sia nel quartier nostro, se si può; e io, subito che arete trovato cosa al proposito, farò pagare costà i danari. Io dico questo perché una casa onorevole nella cictà fa onore assai, perché si vede più che non fanno le possessione, e perché noi sià(n) pure cictadini discesi di nobilissima stirpe. Mi son sempre ingegniato di risuscitar la casa nostra, ma non ò avuto frategli da cciò. Però ingegniatevi di fare quello che io vi scrivo, e che Gismondo torni abitare in Firenze, acciò che con tanta mia vergognia non si dica più qua che io ò un fratello che a Sectigniano va dietro a’ buoi. E quando arete comperata la casa, ancora si comperrà dell’altre cose.Un dì che io abi tempo, v’aviserò dell’orrigine nostra e donde venimo, e quando, a Firenze, che forse nol sapete voi. Però non si vuol torsi quello che Dio ci à dato.Michelagniolo Buonarroti in Roma.A Lionardo di Buonarroto Simoni in Firenze.
Collocazione: AB, IV, n. 74; orig. autogr.
Bibliografia: Michelangelo, Carteggio, IV, 1979, pp. 249-250
Messer Benedecto, perché e’ paia pur che io abbia ricievuto, com’io ò, il vostro Librecto, risponderò qualche cosa a quel che e’ mi domanda, benché igniorantemente. Io dico che la pictura mi par più tenuta buona quante più va verso il rilievo, e el rilievo più tenuto cactivo, quante più va verso la pictura però a me soleva parere che la scultura fussi la lanterna della pictura, e che da l’una a l’altra fussi quella diferentia che è dal sole a la luna. Ora, poi che io ò lecto nel vostro Librecto dove dite che, parlando filosoficamente, quelle cose che ànno un medesimo fine sono una medesima cosa, io mi son mutato d’openione e dico che, se maggiore g[i]udicio e dificultà, impedimento e fatica non fa maggiore nobilità, che la pictura e scultura è una medesima cosa; e perché la fussi tenuta così, non doverrebbe ogni pictore far manco di scultura che di pictura e ‘l simile lo scultore di pictura che di scultura. Io intendo scultura quella che si fa per forza di levare; quella che si fa per via di porre è simile a la pictura. Basta, che, venendo l’una e l’altra da una medesima intelligentia, cioè scultura e pictura, si può far far loro una buona pace insieme e lasciar tante dispute; perché vi va più tempo che a far le figure. Colui che scrisse che la pictura era più nobile della scultura, se gli avessi così bene intese l’altre cose che gli à scricte, l’arebbe meglio scricte la mie fante. Infinite cose, e non più decte, ci sare’ da dire di simile scientie; ma, come ho decto, vorrebon troppo tempo, e io n’ò poco, perché non solo son vechio, ma quasi nel numero de’ morti. Però prego m’abbiate per iscusato. E a voi mi rachomando e vi ringratio quanto so e posso del troppo onor che mi fate, et non conveniente a me.Vostro Michelagniolo Buonarroti in Roma.
Collocazione: BNCF, Autogr. Palatini, Varchi, I, n. 37; orig. autogr.
Bibliografia: Michelangelo, Carteggio, IV, 1979, pp. 265-266
Magnifico Lorenzo etc., solo per avisarvi chome sabato passato g[i]ugnemo a ssalvamento, e ssubito andamo a visitare el chardinale di San G[i]org[i]o e lli presentai la vostra lettera. Parmi mi vedessi volentieri e volle inchontinente ch’io andasse a vedere certe figure, dove i’ ochupai tutto quello g[i]orno, e però quello g[i]orno non detti l’altre vostre lettere. Dipoi domenicha el Chardinale venne nella chasa nuova e ffecemi domandare andai da llui e me domandò quello mi parea delle chose che avea viste. Intorno a questo li dissi quello mi parea, e certo mi pare ci sia molte belle chose. Dipoi el Chardinale mi domandò se mi bastava l’animo di fare qualchosa di bello. Risposi ch’io non farei sì gran chose, ma che e’ vedrebe quello che farei. Abiamo chonperato uno pezo di marmo d’una figura del naturale, e llunedì chomincerò a llavorare.Dipoi lunedì passato presentai l’altre vostre lettere a pPagolo Rucellai, el quale mi proferse que’ danari mi bisogniassi, e ‘1 simile que’ de’ Chavalchanti. Dipoi detti la lettera a Baldassarre, e domanda’gli e el ba(n)bino, e ch’io gli renderia e’ sua danari. Lui mi rispose molto aspramente e che ne fare’ prima cento pezi, e che e’ banbino lui l’avea chonperato e era suo, e che avea lettere chome egli avea sodisfatto a chi gniene mandò, e non dubitava d’avello a rrendere; e mmolto si lamentò di voi, dicendo che avete sparlato di lui. Èccisi messo qualchuno de’ nostri Fiorentini per achordarci, e nnon ànno fatto niente; ora fo chonto fare per via del Chardinale, che chosì sono chonsigliato da Baldassarre Balducci. Di quello seghuirà, voi intenderete. Non altro per questa. A vvoi mi rachomando. Dio di male vi guardi. Michelagniolo in Roma. Sandro di Botticello in Firenze.
Collocazione: ASF, Mediceo av. il Principato, LXVIII, n. 302; orig. autogr.
Bibliografia: Michelangelo, Carteggio, I, 1965, pp. 1-2.
Qua si fa elmi di calici e spade
Qua si fa elmi di calici e spade
e ‘l sangue di Cristo si vend’a giumelle,
e croce e spine son lance e rotelle,
e pur da Cristo pazïenzia cade.
Ma non ci arrivi più ‘n queste contrade,
ché n’andre’ ‘l sangue suo ‘nsin alle stelle,
poscia c’a Roma gli vendon la pelle,
e ècci d’ogni ben chiuso le strade.
S’i’ ebbi ma’ voglia a perder tesauro,
per ciò che qua opra da me è partita,
può quel nel manto che Medusa in Mauro;
ma se alto in cielo è povertà gradita,
qual fia di nostro stato il gran restauro,
s’un altro segno ammorza l’altra vita?
Per molti, donna, anzi per mille amanti
Per molti, donna, anzi per mille amanti
creata fusti, e d’angelica forma;
or par che ‘n ciel si dorma,
s’un sol s’appropia quel ch’è dato a tanti.
Ritorna a’ nostri pianti
il sol degli occhi tuo, che par che schivi
chi del suo dono in tal miseria è nato.
– Deh, non turbate i vostri desir santi,
ché chi di me par che vi spogli e privi,
col gran timor non gode il gran peccato;
ché degli amanti è men felice stato
quello, ove ‘l gran desir gran copia affrena,
c’una miseria di speranza piena.
Caro m’è ‘l sonno, e più l’esser di sasso,
Caro m’è ‘l sonno, e più l’esser di sasso,
mentre che ‘l danno e la vergogna dura;
non veder, non sentir m’è gran ventura;
però non mi destar, deh, parla basso.