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Il Museo del Novecento attraverso gli occhi dei bambini

I bambini sono seduti a cerchio. Le gambe incrociate, i musi appoggiati sui pugni, gli occhi curiosi.

Di fronte a loro è il ritratto fotografico di Piero Manzoni, che beffardo li guarda a sua volta, come a volerli interpellare. A inquadrare il viso paffuto di Manzoni è una cornice di lattine di Merda d’artista, che l’artista creò negli anni Sessanta per irridere il mercato dell’arte che comprava a peso d’oro quanto fosse semplicemente firmato.

Di quella fotografia a catturarci è il suo stupore incantato, sono gli occhi grandi e spalancati, le sopracciglia alzate, la fronte aggrottata. È un’espressione che si riflette in quella dei bambini che di fronte ai panini ricoperti di bianco, alla tela grinzata, alla serie di linee infinite, non storcono il naso, non si dicono «Avrei potuto farlo io», ma liberano la loro mente per incontrare il genio irriverente e a lungo incompreso di Piero Manzoni.  Per capire la rivoluzione artistica di un talento come il suo, bisogna scardinare l’idea tradizionale di arte, bisogna ribaltarla, giocarci, sospendere i preconcetti e in questo i bambini sono più bravi.

Che giocare sia una cosa seria l’Associazione Mus.e lo ha capito da tempo, portando avanti un’idea di mediazione culturale che accompagna il visitatore al patrimonio artistico, senza strappi, né ardite evoluzioni che facciano dell’arte un fatto d’élite. Tutti imparano, tutti partecipano, nessuno escluso.

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Questa volta è una fantasmagorica macchina del tempo a condurre i giovanissimi visitatori in un vortice temporale che li rigurgita nel XX secolo per dialogare con alcuni dei maestri del passato: tra questi Mario Mafai, di cui l’autoritratto apre la sezione Volti. Ritratti, pensata dal neo direttore Sergio Risaliti. Nel Novecento, infatti, la modernità irrompe nell’antica tradizione della ritrattistica, portando in scena i conflitti di un “io” disintegrato, che si auto-rappresenta attraverso i riflessi di uno specchio deformante, restituendo il volto attraverso una gamma infinita di accenti e sfumature.

In un girotondo di commenti, i bambini cercano di indovinare le espressioni che segnano il volto allungato di Mario Mafai, che è languido, annoiato, pensoso, che è tutto quanto lo spettatore riesca a intuire.

È una complessità aperta quella del contemporaneo, che fugge qualsiasi rigidità e univocità. È il pluralismo di voci bianche a risvegliare lo spirito sopito dei quadri, è il loro credo incondizionato a conferire un’aura al piedistallo ligneo che troneggia in mezzo alla lunga sala del Museo del Novecento di Firenze, come fosse magico.

Conosciuto infatti come “base magica”, il piedistallo di Manzoni rende scultura chiunque vi salga.

Le sculture viventi hanno, questa volta, le pose eroiche di un bimbo in salopette, lo sguardo basso e dolce di una timida ragazzina, i lineamenti duri e sfrontati di una bambina dai capelli lunghi, interpretando – meglio di chiunque altro – l’animo fanciullesco degli artisti di tutti i secoli.

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di Linda Pedraglio
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[questo articolo nasce dalla collaborazione con la Scuola di linguaggi Fenysia]

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