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Big Clay #4 | Essere o non esser questo è il problema

Al meglio delle sue prestazioni, l’arte non è inclusiva. Come ci ha spiegato Umberto Eco, ci vuole più tempo per digerire e assimilare il diversamente nuovo. Tuttavia in una civiltà culturale è opportuno superare la fase più violenta del giudizio, arrivando a una conciliazione o a una mediazione sui contenuti storico artistici.

Prendiamo un bambino che maneggia l’argilla, un artista, uno scultore che prova a dar forma a qualcosa con la creta. Pensiamo al Dio della Genesi che impasta la terra umida per plasmare l’uomo a sua immagine e somiglianza. Oppure, a Prometeo che nell’antica mitologia incarnava il genio della tecnica. Tra loro la differenza consiste nella finalità del gesto: il bambino pasticcia la duttile materia senza pensare a un modello ideale, a una funzione precisa; non ha come punto di riferimento qualcosa di esemplare da copiare, non lo fa per semplificarsi la vita. Avverte solo un indicibile piacere nel palpeggiare e nel veder sorgere strane fantasie dall’informe materia che ha tra le mani. L’artista rinascimentale prosegue invece l’operazione del primo demiurgo, convinto di essere il motore del mondo: e per questo tende a creare un essere perfetto, divino, identificandolo in se stesso, correggendo la natura quel tanto che basta per migliorarla, conciliando idealismo e naturalismo, ma sempre operando, nei limiti del linguaggio figurativo. Tale cultura, credenza, ha dominato nell’arte occidentale fino al novecento. Da un po’ di tempo, però, si sono affermati l’informe, l’astratto, l’action painting, la land art e l’arte povera. Si sono scarabocchiate tele. Si sono esposte lamiere accartocciate, blocchi di burro,  tele tagliate. E molto altro ancora.

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Urs Fischer sembra agire come un bambino. Plasma la materia senza avere come riferimento l’immagine dell’uomo concepito in senso idealistico. Tra il puro piacere di plasmare, e quello di creare una forma libera da accademismi, s’insinuano le trame e le forze dell’inconscio, si mette in azione la libido con la sua energia, la sua chimica. Big Clay#4, è il risultato ingigantito di un semplice gesto di primaria manipolazione creativa. Le forme originarie sono state aumentate di dimensione con un lavoro al computer di eccezionale precisione e qualità, per poi essere riprodotte in alluminio.
Materiale e aspetto evitano di dialogare con la tradizione più nobile del marmo o del bronzo, come ha fatto invece Henry Moore che ispirandosi all’organico o al minerale aveva in mente comunque Michelangelo. Le masse di Big Clay sembrano infatti gonfiate piuttosto che scolpite. Sono forme gigantesche che gravitano quasi senza peso.
Vi si avverte una qualche parentela con le sculture di Claes Oldenburg. Osservando la superficie scopriamo  le tracce dei polpastrelli, la pressione delle dita, zone in cui l’artista ha scavato penetrando nella massa. L’azione successiva è consistita nell’impilare quella specie di informi polpette in modo da farle stare in piedi. Ne è scaturita una forma convincente che suscita immagini non univoche.
Sensazioni materializzate senza pensare o limitarsi al campo del figurativo. Modellando la creta, Fischer ha dato forma a un’immagine che è più forte di ogni pre-giudizio culturale perché tra le sue mani si è generato qualcosa che è più arcaico di ogni modello accademico, praticamente una materia archetipica. Ciò che interessa è cosa ci possiamo vedere o riconoscere senza schematismi a priori. Può essere un gigantesco meteorite, una concrezione cancerosa di proporzioni colossali, un totem tuberoso, una mostruosità escrementizia, un pupazzo scarabocchiato, un ‘prigione’ o un ‘atlante’ ancora informe, un ratto delle Sabine appena abbozzato, un Sansone o Appennino tutto da rifinire, o nulla di tutto questo.

In ogni caso è qualcosa di affascinante e di sporco allo stesso tempo. 

In questo senso, le forme originarie (Urform ) di Big Clay ci ricordano come manualità, plasticità, creatività siano più collegate al basso materialismo che all’idealismo, più allo scatologico che al teologico. Non c’è dubbio che si tratti di un abbassamento per eccesso di tutte quelle figure, geometrie, iconografie e retoriche su cui è stata organizzata e storicizzata la magnificenza di Piazza della Signoria. Qualcosa di canceroso ha attaccato il classicismo proprio all’interno di quel recinto ideale che è la piazza con la sua bellissima Loggia. L’invasione di campo risulta scioccante proprio perché nel gesto formale non c’è alcuna “sintesi dialettica”- per dirla con Yve-Alain Bois – “ma la semplice interposizione di un’oscenità nel castello di carte dell’estetica classica”.

Richiamando alla memoria opere come Three part object  (1960) di Henry Moore, oppure certe opere di Lucio Fontana, in particolare Scultura nera degli anni quaranta, o quelle di Leoncillo, e perfino le fotografie di Eileen Agar della serie Burn and Thumb Rock del 1936, il gesto solidificato di Fischer si sposta nella nostra testa dall’organico al geologico, dallo scatologico al minerale.

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Nel caso di Fischer la scultura informe è stata generata toccando e palpando materia senza sublimare la potenza in un paradigma-sintagma figurativo. Qualcosa che è ricolmo di dolcezza e di violenza, tra il primordiale di un vulcano che erutta lava e il gesto ingenuo di un bambino che prometeicamente solidifica la materia dell’inconscio mentre gli adulti vedono e con tono irriverente dicono solo “questa è cacca”.

Sergio Risaliti
Curatore “Urs Fischer in Florence