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Alighiero Boetti: giochi di parole e significati al Museo Novecento

La convivenza tra opposti di Alighiero Boetti invita lo spettatore a interrogarsi sulla duplicità dell’arte e della natura umana.

Nato nel 1940, Alighiero Boetti è stato uno degli artisti più attivi e eclettici della seconda metà del Novecento e, in particolare, uno dei​ maggiori esponenti dell’Arte Povera. Boetti ha infatti partecipato a quasi tutte le collettive di questo gruppo, portando però sempre avanti la sua personale ricerca e la sperimentazione, senza identificarsi e rinchiudersi in un solo movimento. È, probabilmente, il concetto di duplicità la chiave per interpretare e comprendere la visione di questo artista che addirittura, nel 1973, decise di cambiare il proprio nome in Alighiero e Boetti, quasi come se dentro di lui vivessero due identità, opposte ma inseparabili.

Lontane dagli schemi classici della pittura, che Boetti riteneva troppo distanti dalla vita comune, le sue opere sono caratterizzate da continui cambiamenti e ricerche, sia nelle tematiche che nelle tecniche e nei materiali utilizzati.

Durante un viaggio in Afghanistan, nel 1971, rimase affascinato dall’antica arte del ricamo a filo di lino praticata dalle donne locali. Decise quindi di commissionare il lavoro a 500 donne che ​lo avrebbero eseguito rigorosamente a mano: nacquero così i famosi arazzi che lo hanno reso celebre in tutto il mondo.

​In diversi formati, gli arazzi erano suddivisi in griglie in cui venivano inserite frasi e motti inventati dallo stesso artista. Attraverso delle parole apparentemente semplici ma di natura discordante l’artista rifletteva su aspetti di carattere politico, sociale, culturale e linguistico, invitando a sua volta lo spettatore a interrogarsi e fruire attivamente delle opere, senza subirle in modo passivo e disinteressato. In un continuo gioco di doppio speculare fatto di destro e sinistro, di alto e basso, di parole e immagini, rifletteva sulla duplicità della natura umana e della società, tra coerenza e contraddizione.

Alcune di queste frasi sono diventate celebri, come nel caso di“Da Figura a Veritas” e “Languidi Sguardi Assassini”, due delle opere esposte al Museo Novecento, nella sala delle mostre temporanee.

La collaborazione con le tessitrici afghane durò molti anni, anche quando queste furono costrette a scappare in Pakistan a seguito dell’assedio delle truppe russe. Boetti continuò a fornire le sue precise indicazioni e la produzione non si fermò, seppur con evidenti cambiamenti tecnici, dovuti all’utilizzo delle macchine da cucito. Non cambiò però l’obiettivo principale: lo spettatore viene “catturato” dai colori vivaci e dall’apparente tridimensionalità delle opere, ma le tele hanno poi bisogno di farsi leggere, di farsi guardare. È dunque invitato a girare, a muoversi intorno, per pensare, interrogarsi e elaborare una propria interpretazione personale.
Nel 1974 Boetti dirà:

Il lavoro della Mappa ricamata è per me il massimo della bellezza. Per quel lavoro io non ho fatto niente, non ho scelto niente, nel senso che il mondo è fatto com’è e non l’ho disegnato io, le bandiere sono quelle che sono e non le ho disegnate io, insomma non ho fatto niente assolutamente; quando emerge l’idea base, il concetto, tutto il resto non è da scegliere.

 

Oltre a essere esposte in una delle sale del Museo Novecento, opere di Alighiero Boetti in “Ytalia”  sono presenti anche al Forte di Belvedere e in Palazzo Pitti presso la Galleria Palatina