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10 domande a Sergio Risaliti, curatore di YTALIA

D: Il difficile mestiere del curatore. Quali sono le mostre che ti hanno segnato e fatto venir voglia di farne di tue?
R: Se ritorno con la memoria alla mia adolescenza, la prima mostra fu una mostra alla Galleria Farsetti di Prato, dedicata agli artisti toscani, se ben ricordo avevo 14 anni. Successivamente un’altra mostra formativa è stata Umanesimo Disumanesimo, organizzata a Firenze nel 1980 e curata da Lara-Vinca Masini. Poi ricordo una grande retrospettiva su Joseph Beuys curata da Harald Szeemann, che è un po’ il mio punto di riferimento, al Kunsthaus di Zurigo e quella su Alighiero Boetti al Magazìne di Grenoble, la mostra di Bruce Nauman al Reina Sofia di Madrid, quella di Gerhard Richter al Museè de la Ville di Paris (tutte del 1993), oppure le grandi kermesse come Documenta del ‘92 e poi anche qualche edizione importante della Biennale di Venezia, come quella del ‘93 . Sono tantissime, perché la formazione di un curatore avviene sul campo.

D: Cosa fa un curatore quando pensa ad una nuova mostra, da cosa si parte, come si scelgono gli artisti e il tema?
R: L’artista si sceglie in base ad una preferenza poetica: dipende dalla sua poetica e da quello che ci si sente di voler dire o affermare. A volte anche in base a quella che si sente come una mancanza, una lacuna, un vuoto sia personale che collettivo, è come se ci volessimo aggiornare, aggiornare se stessi e gli altri. Tante volte le mostre le penso nel dormiveglia, me le immagino. È come una coreografia per un balletto, una mostra è prima di tutto una coreografia di opere posizionate in determinati spazi. Quindi vuol dire conoscere bene gli spazi e metterli in relazione con le opere, immaginare un percorso, un’articolazione, dei rapporti sia di contenuto che di forme, di equilibri, pesi fra opere e opere. Pian piano realizzi questa che è a tutti gli effetti una grande composizione musicale. Ci sono delle opere che sono delle composizioni per quartetti, o ci sono delle mostre che sono dei concerti, un assolo di pianoforte o delle vere e proprie sinfonie. Ytalia per esempio è stata una grande operazione sinfonica senza dubbio.

D: Si sceglie prima l’artista o il tema?
R: La mostra può essere una personale, quindi con un solo artista. Il tema in questo caso lo detta proprio l’artista, o può essere discusso insieme a lui. Emerge dalla scelta delle opere o dalla creazione di opere inedite. Mentre la mostra tematica nasce per riflessioni, suggestioni, immaginazioni: possono essere pensieri elaborati nel tempo o studiati in un dato momento. Ovviamente la mostra tematica ha un impegno temporale diverso. A me piacciono molto le mostre tematiche.

D: Quali peculiarità sono indispensabili per fare il curatore?
R: Una delle principali è una conoscenza seria e profonda della storia dell’arte, come la concepiva Marlot. Una storia dell’arte che non separava le epoche né i generi, che trova interesse dall’arte preistorica all’arte attuale. Ma non solo l’arte, anche la musica, il teatro, l’architettura. Credo che il curatore debba avere questa preparazione, questa curiosità, ma anche una visione ”politica” dell’arte e della cultura. Sicuramente è necessaria una forte dose di immaginazione. Trattare l’opera d’arte e le opere fra di loro come un discorso, una frase poetica: una mostra deve creare un surplus d’emozione oltre che spiegarti e illustrarti un determinato concetto. C’è sempre qualcosa di più che è anche inatteso, inaspettato e che scaturisce dall’opera stessa, messa in quel contesto accanto ad altre opere.

D: Parliamo di Ytalia, raccontaci com’è nata l’idea di questa mostra.
R: Da quando ero ragazzo ho cominciato a guardare, ammirare e cercare di capire il lavoro di certi artisti, primo fra tutti Luciano Fabro, di cui mi colpì un’opera, “Ruota”, che mi lasciò senza parole. Io che ero abituato alla bellezza rinascimentale, mi feci “aprire la testa” da questo oggetto minimale. Da allora ho cominciato ad interessarmi in modo continuo e approfondito all’arte contemporanea. Era da tanti anni insomma che avevo intenzione e voglia di dire la mia sull’arte italiana, dagli anni ‘60 alla generazione di Domenico Bianchi, Nunzio, da tanti anni immaginavo il mio padiglione Italia della Biennale. Come lo avrei potuto organizzare, curare. Ho sempre pensato alle qualità dell’arte italiana: cosa è che mi interessa, che mi piace e mi attrae. Quali sono i valori fondativi che riconosco, e che continuano dal primo Umanesimo a oggi, che ricorrono se pur variando gli stili, le forme; ma qualcosa resta, qualcosa che appartiene in termini antropologici, culturali, filosofici all’arte italiana c’è. E lì, pian piano ho immaginato questa composizione di artisti.

D: Ora che Ytalia è finita, la mostra è chiusa, il grado di soddisfazione fra progetto iniziale e realizzazione finale?
R: La soddisfazione finale è assai maggiore di quello che immaginavo all’inizio. Anche se devo dire che mi dà sempre una grandissima gioia il momento dell’ideazione, quando cominci a intravedere che la combinazione, la coreografia ha un senso, funziona. E poi la soddisfazione è stata ovviamente vederla materializzata, perché c’è un enorme sforzo di realizzazione, di organizzazione, e questo vuol dire che la mostra non è mai solo un tuo progetto ma un’operazione che coinvolge un gruppo di lavoro, un insieme di sensibilità, di intelligenze, di professionalità che lavorano all’unisono e rendono possibile il concerto finale… sarebbe poca cosa il direttore di orchestra senza partitura e senza gli orchestrali, senza i quali ci sarebbe il silenzio.

D: In una mostra particolarmente complessa, quali sono state le principali difficoltà se ci sono state?
R: Forte Belvedere ha, una difficoltà straordinaria di per sé, dal punto di vista della logistica, del trasporto e della collocazione delle opere sui bastioni e all’interno delle sale. Oppure aver ottenuto in prestito la Calamita Cosmica con tutta la complessa fase di smontaggio a Foligno, restauro e poi trasporto al Forte e rimontaggio. E poi adesso alla fine della mostra lo scheletro è stato smontato, restaurato e riportato a Foligno. Un’operazione gigantesca.
E poi ogni luogo, dagli Uffizi, a Palazzo Pitti, da Boboli alla Cappella Pazzi, ogni luogo con le sue specificità, ogni luogo un contesto particolare, con le sue complicazioni, la sua logistica e anche però la sua atmosfera, il suo clima, la sua dimensione aurea all’interno della quale siamo entrati cercando non di agire per contrasto e neanche per mimetica, ma a costruire, aggiungere termini poetici a una frase già compiuta, che con questa piccola addenda poetica si è arricchita, dando vita ad una nuova composizione. Fatta dal precedente e dall’attuale, qualcosa che ha costruito un’esperienza artistica più ricca, più complessa, perché a un passato glorioso si è aggiunto un presente poetico.

 

D: Quindi ha rimesso in gioco tutto quello c’era…
R: Ha rimesso tutto in gioco con dialoghi molto intrinseci, di sintonia, con una propria autorevolezza che viene data dalla qualità del lavoro di questi artisti. Ad esempio la presenza dello “Spirato” di Luciano Fabro in cappella Pazzi sembra quasi necessaria. Non era un di più in contrasto di provocazione, ma l’aggiunta di una nota a una frase musicale, che ha arricchito la frase, l’ha completata.

D: La cosa di cui andare più orgoglioso?
R: Abbiamo fatto un lavoro in gruppo di altissimo livello professionale, concettuale e poetico. Io trovo sempre grande soddisfazione quando mi rendo conto che tante persone attorno a me e assieme a me sono cresciute. Poi andando nello specifico la grande soddisfazione di esser riuscito a metter così tante opere insieme, aver aggiunto un po’ di sensibilizzazione sul contemporaneo e sull’arte italiana. E’ stata anche poter avere certe opere, come lo Spirato di Luciano Fabro, o la partecipazione di un artista straordinario come Anselmo. Poter aver avuto la possibilità di stare gli ultimi giorni con Kounellis, un’esperienza che né io, né le persone che hanno collaborato alla mostra dimenticheranno, perché abbiamo vissuto con questo straordinario artista gli ultimi momenti della sua vita, perché dopo il sopralluogo a Firenze fra Uffizi e Palazzo Vecchio, la settimana dopo Jannis si è ammalato e se ne è andato.

D: Hai avuto feedback dagli artisti, dagli eredi, dalle fondazioni sulla realizzazione della mostra?
R: Gli eredi hanno dato voce agli assenti. Silvia Fabro è stata generosissima nei prestiti e entusiasta nella valutazione del progetto prima, nel montaggio durante e poi successivamente ha espresso il suo parere favorevole rispetto al catalogo. Lo stesso Caterina Boetti, anche lei generosissima nei prestiti e nelle valutazione dell’allestimento. Fa commuovere l’apprezzamento di Anselmo o di Paolini. Penso che abbia apprezzato anche Gino De Dominicis visto che allo scheletro non è accaduto nulla, quindi l’ha protetto dall’aldilà, come sa fare lui.

D: Potendo rifarla da capo, cambieresti qualcosa o no?
R: No, di solito sono sempre soddisfatto delle mostre che realizzo e non la cambierei, perché così doveva essere. Cambiarla vuol dire fare un’altra mostra. Le mostre sono come la vita, un’esperienza anche amorosa, la fai vivendola, è quella e non può essere un’altra.