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GLI ARTISTI DI YTALIA

Sceglierli non è stato semplice. Le loro opere, in totale più di 100, raccontano il fermento vivo e sfaccettato che ha caratterizzato il mondo dell’arte italiana dal Dopoguerra agli anni Settanta

La mostra Ytalia vuole rappresentare l’opera e il pensiero di tre diverse generazioni artistiche: quella del periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale, quella affermatasi negli anni Sessanta e quella successiva, che ha esordito a partire dai Settanta.

Scegliere i 12 artisti italiani le cui opere saranno esposte non è stato affatto semplice: è una selezione non esaustiva, ma indicativa di un percorso storico.

Non è, come già dicono in molti, una mostra sull’Arte Povera. Non solo, almeno. Le correnti di quest’ultima sono quelle maggiormente rappresentate, ma nel percorso di mostra troverete l’espressione di molte altre diverse sensibilità, che lasciamo a voi il gusto di scoprire.

Le opere in mostra portano avanti, seppur in modalità molto differenti l’una dall’altra, una riflessione tra il “terreno” e il “celeste”: ognuno degli artisti si è misurato con la sfida di rappresentare il suo personale concetto del rapporto dell’uomo con la realtà in cui vive, opera, viaggia e pensa. La mente, da cui nascono queste riflessioni, porta il corpo e le mani a esprimerle usando elementi di concretezza, dal colore alla materia, e regalandoci opere che valgono da testimonianza di un periodo storico caratterizzato da un vivacissimo fermento culturale, il quale si è sovente espresso anche attraverso la sperimentazione e il confronto con influssi provenienti da altre parti del mondo.

A fronte di una grande varietà di forme di espressione (dalla scultura, alla pittura, all’arazzo…) il fil rouge che lega i vari artisti è la vividezza di questa connessione tra la sfera “alta”, metafisica e spirituale, e quella terrena.

Abbiamo provato a raccontarvi un po’ di ognuno di loro qui sotto: cliccate per conoscerli meglio!

Mario Merz

(Milano ,1925 – Torino, 2003)

Merz si avvicina alla scena artistica alla metà degli anni ’50 da autodidatta, dopo aver abbandonato gli studi in medicina. Inizia come pittore ma già negli anni ’60 realizza le sue prime installazioni e alla fine del decennio è tra i protagonisti indiscussi dell’Arte Povera, con una pratica che si concentra sull’utilizzo di materie naturali e sulla ricerca delle energie primarie.
Fin da subito introduce nelle sue opere materiali eterogenei non convenzionali connessi al mondo naturale (rami, foglie, frutta..), animale (coccodrilli, iguane, lucertole..), quotidiano (neon, ombrelli, tavoli…) e scientifico (come la serie numerica di Fibonacci). I suoi primi lavori –  sculture fatte con oggetti comuni che si compenetrano – sottolineano da un lato il suo costante interesse per l’accumulazione e il dinamismo, dall’altro la presenza di temi ricorrenti legati alla natura, all’universo fisico e biologico, allo spazio.
Nel 1968 realizza il suo primo igloo (Igloo di Giap), introducendo uno dei tratti distintivi della sua pratica. Negli anni Merz indagherà il potenziale simbolico di questa forma abitativa – primordiale, comune alle culture orientali e occidentali, in equilibrio tra espansione e concentrazione -, trasformandola in una metafora del rapporto tra natura, uomo e architettura.
A partire dal 1970 inizia a usare all’interno di alcune opere la serie numerica di Fibonacci – individuata dal matematico toscano nel Medioevo, in cui ogni numero è la somma dei due precedenti (1, 1, 2, 3, 5, 8, 13…) – all’interno della quale riconosce una relazione alchemica capace di rappresentare i processi di crescita del mondo naturale e organico.

Jannis Kounellis

(Il Pireo, 1936- Roma, 2017)

 

Tra i principali protagonisti dell’Arte Povera, Jannis Kounellis si trasferisce in Italia nel ’56 dalla nativa Grecia. Le sue prime esposizioni risalgono a quando è studente dell’Accademia di Roma e lavora con la pittura realizzando grandi tele monocrome su cui campeggiano segni elementari (lettere, numeri e segnali direzionali).
Fin dagli esordi si inserisce in un dibattito culturale che ambisce a un rinnovamento del linguaggio visivo con il superamento della stagione artistica ‘informale’.
A partire dalla metà degli anni ’60, inizia a muoversi oltre la superficie pittorica e realizza le sue prime installazioni che, con intensità e potenza lirica, avvolgono lo spettatore ed esprimono la frammentazione e l’alienazione della società contemporanea.
Kounellis rinuncia ad inscriversi in uno stile univoco ed elabora una pratica che si fonda sul riconoscimento del valore pubblico e collettivo dell’opera d’arte, nonché sull’impegno politico della figura dell’artista. Ricchi di riferimenti al mondo arcaico, alla cultura classica e alla storia dell’arte, le sue opere alludono spesso ad un senso di sintesi e unitarietà perdute.
Nell’arco della sua carriera ha costruito un vocabolario ibrido che rifiuta la presunta purezza del medium, scultoreo o pittorico, e implica l’impiego di materiali non propriamente artistici, come oggetti del quotidiano (sacchi di juta, sedie, brandine), elementi naturali (caffè, pietre, fuoco) e industriali (ferro, carbone), o organismi viventi (animali e talvolta persone), come nella celebre opera del ’69 in cui presentò dodici cavalli vivi all’interno della Galleria L’Attico di Roma.

Giovanni Anselmo

(Borgofranco d’Ivrea, 1934)

Anselmo si avvicina all’arte sul finire degli anni ’50 da autodidatta, dedicandosi alla pittura. A partire dalla metà degli anni ’60 inizia realizzare opere scultoree polimateriche nate dall’accostamento di elementi di natura diversa, quasi contraria (organici e inorganici, naturali e industriali), cercando di esaltare l’energia insita nella materia stessa. Nel ’67 viene incluso nella corrente dell’Arte Povera e partecipa alle principali mostre del movimento.
La sua ricerca è tesa ad evidenziare il dialogo tra tangibile e intangibile, mostrando la presenza potenziale dell’invisibile nel visibile.  Le sue sculture si concretizzano in strutture dai volumi semplici che esplorano i principi fondamentali della fisica, illustrando le leggi naturali, come gravità e magnetismo terrestre, che regolano l’esistenza (aspetti su cui si concentrano molte opere iniziali tra cui le Direzioni). In alcune composizioni gli oggetti e i materiali perdono il loro valore specifico per essere percepiti come parte di un processo energetico più ampio, a cui l’artista tenta di conferire una forma visiva.
All’inizio degli anni ’70, Anselmo avvia un ciclo di lavori sul linguaggio utilizzando proiettori per diapositive. Anche in questo caso l’artista mette in relazione la sfera del visibile (il Particolare tangibile) con l’invisibile, un macrocosmo che lo contiene ma che non può essere rappresentato nella sua interezza.
L’idea dell’infinito e della possibilità di raggiungerlo sono temi che Anselmo ha sviluppato con continuità in molti cicli di lavori. Le sue opere tendono a ciò che non può essere visto ma può essere evocato grazie alle possibilità rappresentative dell’arte.

Luciano Fabro

(Torino, 1936 – Milano, 2007)

Alla fine degli anni ‘50 Fabro si trasferisce a Milano, dove entra in contatto con Dadamaino, Piero Manzoni ed Enrico Castellani e si interessa alle ricerche sullo spazialismo condotte da Lucio Fontana, punto di riferimento per molti giovani artisti.
Fin dai suoi primi lavori degli anni ’60, Fabro avvia una personale indagine sulla nozione di ‘abitare’ lo spazio – concepito come un campo d’azione vivo – e sulla relazione tra opera, spettatore e ambiente.  Nel ’67 si affianca alla corrente dell’Arte Povera e, all’interno dei suoi lavori, inizia a sperimentare con una certa varietà di tecniche, mezzi e dimensioni, ponendo sempre molta attenzione al recupero di lavorazioni artigianali, memori della migliore tradizione scultorea italiana.
Attraverso l’utilizzo di materiali sia tradizionali, come il bronzo e il marmo, sia innovativi, come il vetro e la seta, Fabro si concentra sull’analisi delle specificità tecniche del mezzo plastico, che viene liberato dal vincolo di ‘dover’ rappresentare per essere indagato nella forma.
In molti cicli, come nel caso della serie Italia avviata nel ‘68, l’artista adotta silhouette e forme familiari, azzerandone la funzione simbolica collettiva, nell’intento di indurre nello spettatore una nuova percezione dello spazio e degli oggetti.
Nell’arco della sua carriera Fabro si è dedicato molto anche all’attività didattica (prima con la creazione della Casa degli artisti, poi nelle Accademie) e teorica, divenendo uno dei protagonisti del dibattito culturale contemporaneo.

Giulio Paolini

(Genova, 1940)

Giulio Paolini si distingue fin dalle sue prime opere per una ricerca che predilige la sfera concettuale all’indagine sulla materia.
Già a partire dalla metà degli anni ’60, la sua poetica indaga l’identità dell’arte, analizzando il ruolo dell’artista/autore, le fasi del processo creativo e lo spazio della rappresentazione. I suoi primi lavori destrutturano l’opera d’arte a partire dai suoi elementi costitutivi: Paolini analizza gli strumenti del pittore e separa l’immagine dal suo supporto, presentando cornici, carte, tele e colori assemblati con un intervento minimo.
La sua pratica – che alle opere affianca numerosi scritti – può essere letta come una riflessione ininterrotta sul potere delle immagini e sulla relazione tra opera, autore e pubblico nello spazio della visione.
All’interno delle sue installazioni Paolini interroga l’arte nella sua materica esistenza, tramite l’uso di espedienti puntuali, come la citazione e la duplicazione, e di tecniche come il disegno, la fotografia, il collage e il calco in gesso. Nei suoi lavori sono frequenti le assonanze con la storia dell’arte e con un’iconografia condivisa. Molte opere richiamano a una relazione diretta con i maestri del passato (dall’antichità classica al Rinascimento, e oltre), suggerendo uno spostamento nell’atto del vedere: dalla mera contemplazione alla riflessione, poiché l’opera d’arte risiede nell’esperienza che ne fa lo spettatore.

Alighiero Boetti

(Torino, 1940 – Roma, 1994)

Eclettico e cosmopolita, Alighiero Boetti – o Alighiero e Boetti come si firma a partire dal ‘73 – fa il suo esordio nella scena artistica torinese a metà degli anni ‘60, nell’ambito delle sperimentazioni della nuova avanguardia concettuale e dell’Arte Povera.
Nel ’71, seguendo un innato interesse per il nomadismo intellettuale e le culture lontane, visita l’Afghanistan ed elegge Kabul sua seconda patria. Lì inizia la lavorazione della serie delle Mappe: planisferi ricamati dalle donne afghane, in cui ogni nazione è rappresentata dai colori della relativa bandiera.
All’interno delle Mappe, così come in altri cicli che accompagnano il suo percorso artistico (le composizioni di lettere, Biro, Alternando da uno a cento e viceversa…), Boetti  sviluppa l’idea di una creatività collettiva, aperta e processuale, in cui l’artista progetta le opere ma delega l’esecuzione manuale a terzi, che vengono guidati da regole da lui prefissate. L’aspetto mentale rimane prioritario all’interno del processo artistico, per cui la maggior parte dei suoi lavori uniscono alla bellezza formale una logica strutturazione, spesso basata sull’elaborazione di un vero e proprio codice o di un sistema di lettura.
Nella sua produzione – variabile per materiali, tecniche e supporti- Boetti ha cercato di superare le consuete categorizzazioni, a partire dal concetto stesso di identità. Dai lavori sul doppio, come il finto autoritratto Gemelli del ’68 (eco del “je est un autre” di Arthur Rimbaud), fino alle opere partecipate, Boetti mette in crisi l’idea di unità creativa, culturale, linguistica e politica.

Remo Salvadori

(Cerreto Guidi, 1947 )

L’esperienza artistica di Remo Salvadori prende avvio a Firenze e prosegue a Milano, dove si stabilisce negli anni ’70, affermandosi fra una generazione di artisti successivi all’arte povera e all’arte concettuale.

Nella sua pratica sembra coniugare l’inclinazione dell’alchimista rinascimentale ad un’attitudine moderna. I primi lavori mostrano un forte legame con i luoghi da lui vissuti e un’attenzione verso chi osserva (L’osservatore e non l’oggetto osservato è il titolo di una scultura degli anni ’80). L’artista si concentra sul passaggio dall’intuizione alla creazione, alla contemplazione, senza soluzione di continuità.
Le opere fanno spesso parte di serie. Tra queste famiglie – che si evolvono secondo una maturazione lenta e consapevole – Nel momento è un lavoro avviato nel ’74 che si compone di lamine di metallo di varie dimensioni su cui l’artista è intervenuto con tagli e piegature in una complessa dinamica di pieni e di vuoti. Il titolo dell’opera restituisce l’idea di momento sia come ‘istante’, sia come ‘durata’, in riferimento tanto al tempo della creazione, quanto a quello della fruizione.
Per Salvadori l’arte è una comunione di opposti. Le opere si fondano sulla dialettica, concettuale e formale, fra interno ed esterno, unicità e molteplicità, spiritualità e materia. In molte sculture e installazioni ricorrono forme geometriche interpretate come simboli: come il quadrato, indice della dimensione terrestre, contrapposto al cerchio, metafora delle geometrie celesti.

Gino de Dominicis

(Ancona 1947 – Roma 1998)

 

“Gino de Dominicis, pittore, scultore, architetto, Ancona 1947. La sua opera è caratterizzata da una indipendenza dalle varie correnti artistiche succedutesi dal dopoguerra a oggi. Espone le sue opere per la prima volta nel 1966 e successivamente in alcune mostre in Italia e all’estero. Per una sua scelta non esistono cataloghi o libri sulla sua opera. Alla fotografia non concede nessun valore di documento e di veicolo pubblicistico delle proprie opere” (dalla scheda biografica che l’artista inviò per la Biennale di Venezia del ’97).

Personalità complessa e radicale, de Dominicis è tra le figure più emblematiche e misteriose dell’arte italiana contemporanea. Si afferma alla fine degli anni ’60 con una pratica che coinvolge più tecniche espressive e rifiuta di inserirsi in una corrente storico-artistica precisa. Con un’ironia perturbante che fa uso della citazione e dell’appropriazione, l’artista polemizza sottilmente con l’arte del suo tempo.
La sua ricerca è radicata nella storia (come nel recupero dell’epopea sumera di Gilgamesh) e mette in gioco una riflessione su tematiche esistenziali quale l’enigma della vita e della morte.
Nel tentativo ideale di arrestare l’irreversibilità del tempo, le opere vivono nell’ambivalenza tra contingenza e spiritualità e recuperano la forza dell’illusione, come quando si propongono di raggiungere obiettivi impossibili: l’immortalità, l’invisibilità o il Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno a un sasso che cade nell’acqua (opera del ‘71).

A partire dagli anni ’80, de Dominicis si dedica alla pittura realizzando tele dominate da figure ermetiche: “il disegno, la pittura, la scultura, non sono forme di espressione tradizionali, ma originarie, quindi anche del futuro”.

Mimmo Paladino

(Paduli, Benevento, 1948)

Sul finire degli anni ’70, in contro tendenza rispetto alla smaterializzazione promossa dalle correnti del Minimalismo e dall’Arte Concettuale, Mimmo Paladino è tra i sostenitori di un ritorno alla pittura, alla figurazione e al colore, in termini sia espressivi sia materici. Silenzioso mi ritiro a dipingere un quadro, è il titolo emblematico di una sua opera del ‘77.
Nel 1980, su invito del critico Achille Bonito Oliva, partecipa alla mostra Aperto 80 alla Biennale di Venezia, che segna la nascita della Transavanguardia. Fin dagli esordi, l’attività artistica di Paladino è caratterizzata da un’ampia sperimentazione di tecniche e media (pittura, scultura, incisione, scenografia e cinema), attraverso cui elabora un linguaggio personale basato sulla potenza primitiva dell’immagine. Negli anni sviluppa un’iconografia ben definita dal sapore arcaico che richiama le tradizioni della sua terra e alterna elementi figurativi dell’arte egizia, etrusca e paleocristiana a segni astratti e forme semplificate, tipiche di una poetica moderna.
All’interno delle sue opere ricorrono ciclicamente figure ricche di riferimenti al mito e a rituali antichi, che danno vita ad un universo misterioso e onirico.
Dalla fine degli anni ‘80 il dialogo tra pittura e scultura si fa sempre più intenso. Soggetti come le maschere prive di espressione, i segni grafici e gli animali  vanno progressivamente affrancandosi dalla tela per vivere nella tridimensionalità ed approdare, negli anni ’90, nelle grandi installazioni realizzate dall’artista per lo spazio pubblico (come la Montagna di sale del 1990 a Gibellina e La Croce del 2012 a Firenze).

 

Marco Bagnoli

(Firenze, 1949)

Terminati gli studi in chimica, a partire dagli anni ’70, Marco Bagnoli sviluppa una pratica che si articola fra disegno, pittura, scultura e installazione ambientale. La sua ricerca si fonda su profonde conoscenze matematiche, filosofiche e spirituali, che spaziano dall’Occidente all’Oriente, dal passato alla contemporaneità. Nel ‘75 è uno dei fondatori della rivista Spazio x Tempo, sintesi concettuale che accompagnerà diversi suoi lavori e progetti futuri.
Recuperando idealmente la figura dell’artista rinascimentale, in cui l’intuizione creativa convive con la filosofia e la scienza, Bagnoli ricerca all’intero dei suoi lavori l’unione tra dato estetico,  enunciato scientifico e tensione spirituale. Spinto da una curiosità errante, l’artista si muove dalle radici del razionalismo occidentale fino ai rituali e alle mitologie delle culture orientali (islamica, induista o taoista).
L’opera d’arte viene concepita come una soglia, un canale di collegamento ideale verso una visione superiore e trascendente, altrimenti difficilmente percepibile. L’elemento immateriale della luce è considerato, in questo senso, di primaria importanza e ricorre in molti lavori. “L’opera d’arte – sostiene Bagnoli – è sempre un miracolo, perché essa avviene nel mondo e per il mondo, ed essa si fa nonostante ciò che esiste nel mondo…L’opera d’arte avviene nel vuoto, e in questo avvenire compie, per eccesso, l’offerta di sé, essa è allora ‘agape’, raccoglie in sé il mondo nel vuoto del suo rappresentarsi, si riempie del mondo. Facendola, l’artista si abbandona all’opera e l’opera lo abbandona”.

Nunzio

(Cagnano Amiterno, L’Aquila, 1954)

A partire dagli anni ‘80, Nunzio è tra gli esponenti di una nuova generazione di scultori e si afferma con una pratica che lavora con e sulla materia, prediligendo l’uso di gesso, legno e piombo.
Dopo gli studi all’Accademia, dove si laurea in scenografia con Toti Scialoja, tiene la sua prima personale a Bolzano, in cui presenta le prime sculture in gesso colorato a tempera, dipinto per immersione. Nell’84 il critico Achille Bonito Oliva lo inserisce nella mostra Ateliers organizzata negli spazi romani dell’ex pastificio Cerere, associandolo al gruppo Officina San Lorenzo, una compagine eterogenea di artisti interessati al recupero di una manualità passata e restii alle distinzioni tra figurazione e astrattismo.
Dalla seconda metà degli anni ‘80 Nunzio inizia a lavorare con il legno e il piombo. L’artista è interessato ai materiali in virtù delle loro capacità di trasformazione, quindi manipola la materia per testarne le potenzialità espressive e formali in relazione allo spazio e alla luce. Nelle sculture in legno interviene con la fiamma ossidrica conferendo alle superfici un intenso colore nero, in quelle in metallo con la ruggine.
Nunzio predilige forme minimali, talvolta totemiche. L’estrema sintesi della materia spoglia richiama una sorta di sospensione classica, confermata da alcuni riferimenti al passato. “Tutto – afferma Nunzio – viene filtrato dalla storia dell’arte, dagli artisti: forse c’è anche uno sguardo a un certo tipo di primordialità, ma attraverso un passaggio che può toccare Picasso, Brancusi, per poi arrivare all’arte primitiva. Non è però assolutamente uno sguardo diretto”.

Domenico Bianchi

(Anagni, 1955)

 

Domenico Bianchi emerge all’inizio degli anni ‘80 tra gli artisti che promuovono un ritorno alla pittura attraverso uno sguardo nuovo e rivitalizzato.  Diversamente dal gruppo di artisti della Transavanguardia, Bianchi non recupera la figurazione ma elabora uno stile essenziale ridotto a pochi elementi: immagini iconiche che si uniscono a segni astratti.

Le opere pittoriche sono frutto di un lavoro lento e meticoloso che inizia a partire dalla scelta dei materiali e restituisce alla pittura una dimensione sacrale. L’interesse dell’artista è rivolto verso materie, semplici o preziose, che possiedono una trasparenza luminosa intrinseca (la cera, la fibra di vetro, le foglie di argento, il palladio), che il mezzo pittorico sarà in grado di esaltare.
La luce è un elemento primario dei suoi lavori poiché definisce la partitura dello spazio e il movimento delle forme. Le tele si compongono di un nucleo segnico centrale che campeggia, solitamente, su uno sfondo di colore uniforme. Questo elemento è il principio ordinatore dell’intera superficie pittorica – anche quando la tela assume dimensioni ambientali -, esso genera la forma e rimanda a innumerevoli ipotesi di immagini, suggerendo una vastità infinita, sempre aperta.

La ricerca di un’armonia di elementi è perseguita da Bianchi anche nella scultura, come nei lavori delle panchine.  Queste, arricchite da intarsi geometrici o da oggetti in marmo,  vengono disposte all’aperto o all’interno di luoghi d’arte, definendo uno spazio visivo che invita alla sosta, alla riflessione e alla contemplazione.